di Elena Cuomo, docente di simbolica politica, dipartimento di Scienze politiche, Università Federico II di Napoli, ha pubblicato, tra l’altro, «Tutta colpa di Ismene? Interrogativi e questioni filosofico-politiche sulla tratta delle donne nelle società contemporanee», 2018
Vaclav Havel aveva profetizzato come l’esasperazione del gusto per gli oggetti potesse coltivare un rapporto di possesso con le cose che a sua volta rischia di condizionare le relazioni.
La prostituzione coatta: una schiavitù moderna
Per Oil e l’Unodc, agenzie specializzate dell’Onu, circa ventuno milioni di persone sono vittime di tratta, di cui il 53% a scopo di sfruttamento sessuale. Si stima che ogni anno circa due milioni e mezzo di persone vengano tradotte a tale scopo, di cui il 70% donne e bambine. Tra le sfide globali, il traffico delle donne-merce ha assunto proporzioni macroscopiche e una notevole importanza economica, a causa di una rete criminale internazionale, fondata su alleanze tra mafie, presente in molti paesi, in modo da sfuggire più facilmente ai singoli ordinamenti.
A margine del fenomeno criminale, la prostituzione coatta costituisce un nodo dolorante delle odierne società democratiche occidentali, della loro capacità relazionale, del ruolo del corpo, ormai protagonista delle politiche del benessere e della deriva strumentale dei rapporti umani.
Questa realtà in espansione incrocia e non si confonde con diverse questioni che, a mio parere, le democrazie attuali sono chiamate a risolvere con urgenza, pena lo scadimento del concetto di umano: la formazione di un soggetto maturo, la questione di genere, i flussi migratori, l’inerzia delle società civili, l’indifferenza dei cittadini dinanzi al dilagare della cultura dello scarto.
La mercificazione dell’umano
La sfida è riflettere sulla tratta delle donne utilizzando categorie filosofico-politiche e simboliche, per cercare risposte all’indifferenza della cittadinanza e all’inefficacia delle istituzioni democratiche dinanzi a storie di deportazione e annientamento, di schiavitù di una porzione di umanità chiusa nel recinto del subumano. Le donne costrette al meretricio incarnano una mercificazione trasversale alla dimensione relazionale e alla cultura política. Spesso segnate per sempre dall’impossibilità di rialzarsi dalle ferite laceranti e accettare aiuto, restano come Gorgoni pietrificate, mute, incapaci di dare nome al vissuto, atterrite dall’orrore dei corpi smembrati.
Sono vittime di tratta circa 21 milioni di persone, di cui il 70% donne e bambine. La mole del fenomeno pone questioni di non facile risoluzione circa l’identità delle società democratiche.
In ambito giuridico si distingue tra trafficking in persons, o tratta di persone in senso stretto e smuggling of migrants o favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Qui si intende tratta con il significato di traffico di persone, specie allo scopo di venderle al mercato del sesso. La mercificazione non è una metafora, ma fa riferimento al processo di decostruzione dell’alterità che le donne subiscono durante il viaggio, essendo sottoposte — come documenta Oria Organo — al «trattamento» dello stupro sistemico che le trasformerà in merce viva: cioè subiscono una violenza sistematica di stupri seriali, anche di gruppo, a cui le altre sono costrette ad assistere.
Infatti, nella prostituzione coatta manca l’ipotesi di una libera decisione del soggetto: le donne vengono rapite, violentate e costrette a prostituirsi, spesso per strada, a volte indoor, come emerge dalle indagini di Francesco Carchedi, dove la merce è più protetta dagli sguardi indiscreti, ma non dalla crudeltà di carcerieri e clienti. Per Dacia Maraini questa è la nuova forma di schiavitù di cui sono vittime in particolar modo le donne, specie le ragazze che fuggono da fame e guerra. Sono spesso ragazze dell’Est Europa, ma la consueta storia di violenza e di sevizie che le trasforma in «carne da mercato», coinvolge in maniera più massiva donne nigeriane e ghanesi.
Il commercio di schiave interseca a volte il mondo delle migrazioni dai paesi più poveri verso l’Europa, ma non va affatto confuso con esso. Il termine tratta, infatti, sta a indicare diverse dimensioni vicine al fenomeno migratorio, sulle quali non si può appiattire, quali il traffico di esseri umani, lo sfruttamento lavorativo, la prostituzione coatta.
Il ruolo della domanda occidentale
Il mercato illegale di persone umane a scopo sessuale è alimentato dai maschi occidentali. La concretezza dei fatti è molto elementare: l’interesse economico a lucrare sulla disperazione di chi fugge da violenza e miserie non si configurerebbe se non ci fossero i clienti. Diversi gli interrogativi circa una diffusa o mancata maturazione della sfera sessuale, oltre che della sfera relazionale nel tessuto della nostra società. Ciò aggrava per Rita Giaretta le condizioni già difficili delle donne migranti, ma dovremmo interrogarci sull’estensione della perdita di umanità a tutte le donne, irradiazione di morte e di reificazione subita gravemente innanzitutto dalle ragazze trafficate.
Al contrario di quanto accadeva in Grecia o a Roma, dove la schiavitù era riconosciuta legalmente e regolata da norme, oggi allo schiavo non è riconosciuto alcuno status
Nell’uso comune, il vocabolo fa riferimento alla tratta delle donne a scopo sessuale, ma anche delle persone transessuali o dei minori e più raramente degli uomini; così come viene usato per il reclutamento forzato di esseri umani allo scopo di venderne gli organi o per ottenere manodopera a bassissimo costo.
Interessante come dall’etimo si possa già intuire la vicenda di queste ragazze, inizialmente rapite, vendute, tradite da conoscenti e talvolta dai familiari! Storicamente riferita al commercio degli schiavi negri sulle coste dell’Africa fino al XIX secolo, la parola tratta in italiano, deriva dal verbo trarre e affonda le sue radici etimologiche nei verbi latini tracto trattare con violenza, trascinare, maltrattare, nel senso proprio di mettere le mani addosso a un’ospite, trattarla male e poi dal verbo traho che significa trascinare, rapire, rubare.
Riflessioni filosofico-politiche sulla tratta
In effetti, tali vicende si collocano al crocevia di una serie di questioni scottanti dal punto di vista politico, etico e culturale: migrazioni, violenza sessuale, discriminazioni complesse, diversità culturali, sicurezza, sex work, criminalità transnazionale, mostrando l’altro volto della globalizzazione e i suoi percorsi disumani, i quali reclamano con urgenza una riflessione anche filosofico-politica sull’attuale situazione del pluralismo democratico.
Sebbene per Gabriella Bottani il fenomeno vada collocato nel contesto neoliberista, che privilegia il profitto a scapito dei diritti umani, creando una cultura di violenza, per una comprensione profonda delle sue radici bisogna considerare anche la crisi antropologica di omologazione dei desideri e concezione strumentale dell’essere umano, e la deriva di mercificazione dei rapporti umani che stiamo incarnando.
La mole di un esercito di donne vendute oltre ogni degrado pone questioni di non facile risoluzione, circa l’identità delle società democratiche, la loro congruenza con la tutela dei diritti umani e il rispetto della persona. Per convogliare le grida di un’umanità maciullata non basta parlare di periferia e di degrado, occorre cominciare a riconoscere un fenomeno di deportazione e annientamento, declinato al femminile. Ciò costituisce un paradosso per la democrazia e la società civile deve fare la sua parte, nutrendo un dibattito plurale su quei temi che ne minano le fondamenta antropologiche e culturali.
Un Occidente intento a desiderare cose tangibili, oggetti da possedere per disfarsene subito dopo, in una compulsione al consumo immediato e fungibile, sembra aver annientato la dimensione del desiderio per trasformarla in pulsione al possesso fine a sé stesso. Sullo sfondo non un semplice consumismo galoppante, ma una deriva di omologazione di gusto, desiderata e opinioni dei più, tutte rivolte verso la semplificazione e la reificazione, fino allo svuotamento dell’altro. Già Vaclav Havel, nel ‘900, aveva profetizzato come l’esasperazione del gusto per gli oggetti materiali potesse coltivare un rapporto di possesso con le cose di tipo strumentale, che a sua volta rischiava di condizionare le relazioni. Oggi, dinanzi alla compravendita illegale di donne, merce redditizia sul mercato della prostituzione sempre più frequentata, si può ben dire che i rapporti umani vengano trascinati verso le cose, dal momento che le persone si possono usare, vendere e acquistare: siamo dinanzi alla mercificazione dell’umano.
È molto importante sottolineare come nel testo delle Nazioni Unite (2016) che definisce la tratta di persone e «di altre forme di schiavitù», il consenso della vittima di tratta sia ritenuto irrilevante, se ottenuto con una qualsiasi forma di prevaricazione, coercizione o violenza anche indiretta. L’Onu ha recepito indicazioni delle associazioni di settore, evitando interpretazioni fuorvianti che potrebbero favorire il pregiudizio ancora diffuso circa l’acquiescenza delle donne, una loro presunta disposizione alla prostituzione, o imprudenza nel fidarsi dei trafficanti. Il testo scapola inoltre ogni deriva moralistica o incline alla narrazione vittimizzante stigmatizzata da Tamar Pitch, che offrirebbe il destro a politiche neoliberiste nei confronti di persone e paesi ritenuti «politicamente incapaci» di provvedere a loro stessi.
L’indifferenza della società e talvolta la tiepidezza delle istituzioni interroga la qualità di democrazie che convivono con la schiavitù e con la tortura, declinando la dimensione dello scarto o del subumano in diverse dimensioni e non solo nella tratta delle donne.
Dalla tradizione aristotelica sappiamo che ogni società esprime l’umanità che la sostanzia e viceversa sappiamo altresì che il processo di soggettivizzazione è fortemente influenzato da essa. Dal dibattito sulla pervasività del potere, poi, è chiaro che nelle società democratiche occidentali agiscono condizionamenti simbolici potenti come la centralità del corpo e con esso la sessualità, sempre al centro di politiche culturali di benessere, ma in realtà presentato come dispositivo efficiente, meccanismo da cui trarre il massimo rendimento.
Nel mondo globalizzato del neoliberismo, per Antonio Martone una notevole porzione di umanità, ritenuta non funzionale al ciclo economico del consumo, perché troppo al disotto degli standard economici o di digitalizzazione viene estromessa. Tra costoro senz’altro ci sono le donne dei paesi più poveri che soffrono di un doppio abbassamento di umanità: economico-sociale e di genere. Per esse se di nuova schiavitù si può parlare, è opportuno sottolineare il fatto gravissimo che ciò si verifichi nell’ambito di società democratiche e non nei paesi di origine.
Al contrario di quanto accadeva in Grecia o a Roma, dove la schiavitù era riconosciuta legalmente e regolata da norme, lo schiavo nelle odierne società è negato come soggetto e non gli è riconosciuto alcuno status. Per queste donne, nell’Occidente democratico non esiste alcuna anagrafe ed esse diventano invisibili. È così che subiscono un brutale annientamento dell’unicità della vita e del suo scintillio. A mio modo di vedere il fatto che la persecuzione sia rivolta alle donne, nel cui grembo può germogliare la vita, rende questa vicenda ancora più devastante, soprattutto se ci si interroga sulle modalità di introiezione e propalazione di codici violenti.
Non scandalizzi il paragone con le persecuzioni del secolo scorso e con le modalità disumane con cui la morte venne comminata: rievocare quelle tenebre dà voce a una deportazione tutta al femminile che insanguina i nostri giorni. Giovani ragazze vengono tradotte con l’inganno e poi con la forza dal loro paese di origine, negate, vilipese, violentate, schiacciate fino alla morte. Ancora una volta una porzione di umanità vede devastata la sensibilità e la singolarità personale, l’unicità dell’essere umano, e subisce una barbarie quotidiana di compressione violenta a favore di un corpo divenuto merce-simulacro, ragione del suo stesso ultimo legame con la vita: merce con l’apparenza di corpo di donna, subiscono il paradosso di venire negate in quanto tali e ridotte a simulacro del femminile. disumanizzate, abitano la mera carne, merce da consumare in fretta al mercato nero del sesso.
Come allora per gli ebrei, una parte dell’umanità viene privata di voce e del suo proprio nome per essere ridotta a serialità, puro ammasso di carne, oggi destinato a uso sessuale. Come allora milioni di cittadini restano ciechi testimoni, se non spettatori inerti, forse dimentichi che il corpo non è sola carne, ma che vi è un legame indissolubile tra corpo e vita e la storia personale di ognuna, la sua esistenza. Obiettivo principale oggi non è l’annientamento, ma la prostituzione coatta, allo scopo di lucrare sulle donne, rese merce viva o schiave.
Il mancato intervento massiccio dello Stato è gravissimo nei confronti di queste ragazze e di tutte le donne; ma per l’intera società è grave che si diffonda rapidamente degrado, violenza, anche di genere, discriminazione e subumano a vari livelli.
Nelle periferie dell’esistenza si coagula, in una indefinitezza sofferente, una confusione tra torturati e torturatori, mettendo in atto una gerarchia della violenza fino all’ultimo anello della catena, realizzando una confusione tra vittime e carnefici. I clienti, aguzzini ritenuti non responsabili, contribuiscono a confermare una lenta morte: essi stessi vittime di un sistema nel quale non riescono a integrarsi, di cui non riescono a seguire gli ingranaggi violenti e patinati, di cui subiscono i modelli di fisicità efficiente o gli idoli dello schermo come continue mortificazioni. Esclusi, deprivati della loro specificità, sono potenziali torturatori, ma non di prima linea.
Le donne della tratta smettono allora di costituire una marginalità e diventano veicolo di disumanizzazione, il luogo fisico e simbolico della periferia dell’essere, dove l’umanità viene annichilita, reificata, estendendo la zona grigia di confusione tra vittime e carnefici e confermando la vocazione di quanti tra questi ultimi fossero incerti. Superfluo sottolineare come la potenza della sessualità rovesciata, negata, da desiderio di vita trasformata in somministrazione di morte, costituisca un fattore rilevante.
Di schiavitù odierna e di scarto umano ha parlato in diverse sedi Papa Francesco, non solo stigmatizzando la tratta di esseri umani come gravemente lesiva della dignità della persona, bensì riconoscendo un nesso tra il traffico di persone, con l’aggravante della discriminazione di genere, e la produzione di uno scarto umano, umanità marginale rispetto al trionfo del liberismo imperante, negazione di dignità di ognuno. Schiavitù e tratta di persone sono definite «reato di lesa umanità». Si ritiene che un tale crimine non possa venire commesso se non con la complicità o negligente omissione degli Stati; si richiede al legislatore un intervento più incisivo in considerazione della complessità del delitto di tratta; e si auspica un ulteriore dibattito sui concetti di libertà e responsabilità, specie di chi dinanzi alla comunità si assume il ruolo di garantire l’integrità e il rispetto degli esseri umani e poi non è efficace contro il loro sistematico commercio e abuso.
Sradicamento e controllo: le catene invisibili della tratta
Per chiunque, venire sradicato dai propri riferimenti identitari e affettivi è molto doloroso, espone a gravi pericoli di destabilizzazione, di morte interiore. Per queste ragazze un forte condizionamento deriva, inoltre, dall’essere state brutalmente calate in un contesto di cui non conoscono la lingua, i riferimenti e nel quale esse sono schiave senza ceppi visibili, perché sottoposte a un trattamento violento di interiorizzazione del controllo di tipo poliziesco, che l’organizzazione criminale mette in atto. Il sentirsi continuamente soggiogate rende dunque le catene fisiche superflue: sentendosi continuamente controllate dagli aguzzini, percepiscono i passanti come complici del potere violento, proprio per l’indifferenza che le nega.
Se a ciò si aggiunge il subire violenza reiterata sotto forma di tortura, che produce annichilimento ed estraneazione, cioè annienta spontaneità, sensibilità e ogni capacità di com-passione, tale effetto distruttivo rischia di perdurare oltre l’accanimento degli aguzzini. Per Roberto Escobar se la vittima sopravvive alla violenza fisica attraverso un processo di estraneazione, è candidata a riprodurla, poiché per amministrare la sofferenza e la morte dell’altro, il persecutore deve essere a sua volta sopravvissuto come negazione violenta di sé. Infatti, nel meretricio coatto si verifica che spesso le donne nigeriane, dopo aver saldato il preteso debito con i trafficanti, si trasformino in madam o temibili aguzzine di altre ragazze, acquistate come investimento produttivo.
L’annientamento dell’umanità femminile
Respirando l’elevato grado di violazione dell’integrità umana in questo contesto, non si può negare una ricaduta nefasta sulle esistenze ignare dei cittadini tutti, quasi come se si verificasse un continuo irradiarsi di morte, il diffondersi di un sotterraneo degrado, apparentemente estraneo alle oggettive condizioni di benessere. Di un fenomeno simile ha parlato Pierangelo Sequeri a proposito dell’autoreferenzialità dell’io; e altresì Charlie Barnao ha rilevato come le abitudini sessuali del mondo della prostituzione influenzino le mode dei rapporti personali, negando ogni dubbio circa la permeabilità dei contesti.
In merito all’invisibilità che imprigiona tante donne e nel contempo consente di usarle senza generare alcun cortocircuito, Sequeri, non volendo, ha già fornito una spiegazione circa l’assolutizzazione dell’ego, percepito come anaffettivo, incapace di relazioni umane, empatiche e durature, in ordine a un individualismo dominante. Tale prospettiva potrebbe essere addirittura confermata dall’individuo-massa di Gustavo Zagrelbesky, il quale, sottolinea che oggi l’individuo non rileva di per sé. Articolare insieme queste due distinte prospettive potrebbe spiegare l’affermarsi della cultura dello scarto, a cui si riferisce Zygmunt Baumann, cultura che spesso informa omissioni di soccorso agli emarginati, e persino lo scarso impiego di mezzi da parte degli Stati per combattere la rete criminale di trafficanti di esseri umani. Mi chiedo, poi, se coltivare l’acritica convinzione che l’altra, la straniera ai bordi delle strade, dislocata ai margini, incarni una radicale estraneità al noi, umani e civilizzati, non aiuti il cittadino a perseverare nella sua apatia sopraffatta.
Questa vicenda delle donne di tratta va oltre la sua enorme gravità perché la sopraffazione sfacciata, l’abuso continuo di carnefici apparentemente imprendibili su un’intera categoria sociale, diventata invisibile, e di donne, richiama in causa la dimensione anche simbolica della sottomissione di genere, di cui si vuole Ismene, la mite, la pavida, sia la cifra. Essa corrisponde senz’altro al pregiudizio sulle donne che non scappano da un potere sessista, ma deve far riflettere anche sull’inerzia di società democratiche che non utilizzano più il dissenso costruttivo per combattere le piaghe della disumanizzazione e dello scarto.
Il pregiudizio di nome Ismene aiuta sia a collocare il fenomeno della schiavitù sessuale nel contesto odierno; sia a connotare queste donne come spesso provenienti da mondi in cui la sopraffazione di genere è endemica, motivo per cui alcune scambiano la soggezione e la tortura per una condizione destinale e non riescono a immaginare una fuga.
Talvolta ci si chiede sia per le ragazze deportate e schiavizzate, sia per ogni forma di violenza che coinvolga le donne quali vittime, a volte incapaci di mettersi in salvo, perché le donne si leghino a chi fa loro del male e non si sottraggano ai persecutori. Raramente, alcune ragazze sono capaci di liberarsi e sfuggire alle grinfie degli aguzzini: esse spesso mettono il proprio dolore al servizio di altre sorelle, affiancando gli operatori di settore, ma sono purtroppo eccezioni.
Nella gran parte dei casi, le donne sottoposte a trattamenti violenti sistematici non sono complici e neanche miti per salvarsi la vita. Secondo la psicanalista Maria Maddalena Pessina si tratta di vite adattative, in cui il Soggetto rinuncia a sé, come soggetto sovrano potremmo dire.
Le donne che subiscono continue violenze o che vivono in un clima di violenza diffusa hanno un io paralizzato, schiacciato dai conflitti con le parti interne. Secondo Pessina, le donne oggetto di violenza restano come morte in quanto soggetti. Cioè sono annientate nella contezza di sé e nella volontà propositiva e attuativa; come a dire che l’io resta privo della sua autodeterminazione. Ciò accade perché a volte il dolore della violenza subita non può essere completamente processato e assorbito.
Dal linguaggio della psicanalisi di tipo junghiano sappiamo che la psiche ha una struttura ad arcipelago e che in una persona sofferente si creano nuovi equilibri a danno dell’io. Con uno sforzo di fantasia si può immaginare l’Io come l’isola centrale, la più estesa e che dalla sua posizione determini le correnti marine. In seguito, un maremoto o un’eruzione sconvolge l’equilibrio e il mare sommerge l’isola dell’Io quasi completamente: la funzione di regolare i flutti passa a un’isoletta prima marginale. Cambia completamente il flusso delle correnti e queste non passano più per il centro, sono diventate stagnanti. L’Io ha funzione di organizzare, decidere, agire; se sommerso o messo a tacere, il soggetto perde la sua isola principale e le capacità a essa connesse. Le donne oggetto di violenza, infatti, non scappano perché non dispongono più della dimensione progettuale e dell’autodeterminazione: eseguono come automi e vivono vite adattative, da zombie.
Applicando questi pochi elementi alle donne locate per strada, le quali oltre al vissuto quotidiano devono sopravvivere agli stupri e alla violenza sistematica in cattività: esse si guadagnano quella sorprendente «anestesia del vivere» che pre-giudizi scambiano per capacità di adattamento e che, invece, la psicanalista junghiana ci indica come conseguenza della scissione di un Io che si lascia svuotare. A seguito di un vissuto traumatico, per Pessina, l’Io-Ismene, per non estinguersi, lascia che la sua dotazione energetica venga risucchiata dalle aree complessuali, fameliche, restando alla mercé del Complesso-Personaggio divenuto al momento dominante, più potente. Tale processo smarrisce l’identità abituale fino a quando e se l’Io-Ismene riuscirà a riaversi, riabilitato.
Ciò spiega, anche, mi pare, perché sia dolorosissima la prassi riabilitativa, quando questa si renda possibile.
Cosa può arrivare a mettere in atto una psiche così gravemente disorientata? Credo che sia importante chiederselo per tutte le donne maltrattate che vengono definite spente, opache, complici vittime. Sono, dunque, già morte le donne che finiscono per essere trattate come oggetti nell’attivazione della violenza da parte del maschile.
Le ragazze sacrificate per strada, esposte a una morte seriale, appaiono, inoltre, persino come oggetti fungibili, senza nome. Esse subiscono l’effetto a cascata degli slogan per il ben-essere del corpo efficiente e in ordine all’autenticità omologata del desiderio. Restano lì senza voce, Gorgoni pietrificate, rammentano e vivificano l’ancestrale paura del femminile, causa di odio, violenza, brutalità di maschi, Soggetti incompiuti, che nel possesso dei corpi trovano parziale conforto al disorientamento di psiche possedute da complessi negativi e frammentate.
Una società che voglia pensarsi democratica non può, tuttavia, non reagire dinanzi all’idea di subumano che si espande e si afferma persino nella strumentalità dei corpi fino alla mercificazione e commercializzazione dell’umano. Il prezioso antidoto del dibattito plurale nello spazio pubblico, consegnatoci da Hannah Arendt a difesa della pluralità della vita, non può cadere in disuso e cedere il passo a quell’indifferenza etica e politica che ha sempre rinvigorito le derive totalitaristiche e di discriminazione dell’umano.