di Sergio Bertolissi
«La mia Russia» e «Russkij Mir: Guerra o Pace?» mostrano una realtà poco conosciuta in Occidente, descritta da due cronisti e scrittori: Elena Kostjucenko e Mikhail Shishkin. Entrambi vincitori di premi internazionali, e costretti a vivere in esilio.
Due recenti pubblicazioni in italiano possono contribuire a fornire informazioni sulla realtà russa, alla luce degli avvenimenti che ne stanno segnando il percorso. Si tratta di «La mia Russia», di Elena Kostjucenko (Einaudi, 2023), e di «Russkij Mir: Guerra o Pace?», di Mikhail Shishkin (21lettere, 2022), entrambe opere di giornalisti russi, che ora vivono in esilio, premiati entrambi da prestigiosi premi internazionali, la prima dalla Stampa europea, il secondo vincitore del Premio Strega Europeo 2022. Non intendono rappresentare un approccio storico alle vicende antiche e recenti del proprio Paese, bensì fornire strumenti in presa diretta su fatti e momenti di cui sono stati testimoni e resocontisti, come professione detta.
Elena Kostjucenko: una cronista nel cuore della Russia
Elena Kostjucenko, ammiratrice a suo tempo di Anna Politkovskaja (assassinata a Mosca il 7 ottobre 2006) e ora giornalista nel suo stesso organo di stampa, Novaja Gazeta, il cui direttore Dmitrij A. Muratov è stato premiato con il Nobel per la Pace nel 2021, in tredici capitoli densi e serrati compie una sua personale rassegna di aspetti e problemi della attuale vita del suo Paese, fornendo dati e documentazione appropriati. Ne scelgo alcuni che mi sono parsi particolarmente significativi e degni di attenta riflessione. Il primo si riferisce all’esperienza vissuta da una ragazzina, Katja nome di fantasia, che deve abortire all’interno di una struttura ospedaliera del distretto di Chovrino a nord Mosca (in sigla ChZB), gigantesco complesso da 1.300 posti iniziato nel 1980 e poi abbandonato nel 1985 per svariate ragioni, di finanziamento e di falde freatiche impreviste, che ora sta inesorabilmente franando, ma dà alloggio e vita a un variegato mondo di sbandati, per lo più ragazzi in fuga o senza dimora, Stalker che nel gergo giovanile significa urban explorer, sorveglianti, fantasmi. «La maggior parte dei presenti — scrive Kostjucenko — non arriva a quindici anni. Conoscono il palazzo come le loro tasche, sanno come scappare dagli sbirri nel buio dei corridoi e come spillare soldi ai turisti. (…) Per evitare storie, i sorveglianti spartiscono i soldi con le forze dell’ordine del quartiere Chovrino. Ma ogni tanto gli agenti portano comunque al comando qualcuno dei ragazzini… che dividono con loro alcool e sigarette. (…) Poi c’è il leggendario Nimostor, una stanza del seminterrato che l’omonimo gruppo satanico usava per sacrifici umani, finché le teste di cuoio degli Omon, stanchi degli omicidi hanno circondato l’edificio, hanno costretto i satanisti nel seminterrato inondato d’acqua e hanno fatto saltare i soffitti».
Il ChZB ti «lascia sempre la possibilità di morire — prosegue Kostjucenko — ai lati del corridoio si aprono continuamente degli squarci larghi mezzo metro almeno, l’accesso alle scale non è sbarrato, gli scalini si sbriciolano sotto i piedi, dal soffitto pendono spuntoni appuntiti, le pareti sono tutte crepate. (…) ma la cosa più pericolosa sono i vani aperti degli ascensori. Non hanno muri, sono buchi in mezzo a un corridoio scuro che prende luce dalle finestre (…) gli abitanti del ChZB ti fanno tranquillamente l’elenco di chi ci è caduto dentro, di chi si è rotto qualcosa o ci ha lasciato la pelle». Ma un intervallo felice è poter salire sul tetto, sette piani di scale senza ringhiere, ma gustare che «là sopra fa caldo e quanto fosse freddo dentro, e poter rievocare i tempi iniziali del mostro: «C’era il laghetto, le casette di legno… era bello vedere il tramonto da qui. Ora ci sono solo palazzoni…». La conclusione dell’escursione nel mostro di Chovrino non può finire bene e il resoconto della Kostjucenko registra la caduta mortale nel buco dell’ascensore di due ragazzini, con il commento dell’agente intervenuto «… Ne ho visto tante anch’io… se ne stanno occupando. Non t’immischiare».
Un viaggio nell’incubo: Noril’sk e la devastazione ambientale
Poi, sorvolando molteplici resoconti di vita russa, arrivo nel cuore di tenebra come l’autrice chiama il suo viaggio a Noril’sk, «la città più a nord del Paese, dove si può arrivare solo in aereo, non ci sono strade, l’unica linea ferroviaria finisce a Dudinka, a 90 chilometri da qui». È una zona di confine, sotto la tundra vi sono minerali ferrosi in quantità, dal rame allo zinco, nichel, cobalto, platino, oro, argento, iridio, radio, e, contestualmente, anche zolfo, selenio, tellurio metallico. La città, come l’impianto Nornickel, sono stati costruiti dai detenuti dei lager staliniani, a partire dal 1935 l’impianto e dal 1951 la città, che sono finiti per costituire un tutt’uno. D’inverno, la temperatura raggiunge i 45 gradi sotto zero, d’estate si oscilla tra i 10 e i 30 gradi; due mesi di sola notte, tre mesi di solo giorno. Delle 180 mila persone che vivono qui, un terzo lavora direttamente nell’impianto, mentre le altre lavorano alla manutenzione o per il personale. Il 29 maggio 2020, la parte inferiore di una delle cisterne (la più grande, la n. 5) ha ceduto provocando lo sversamento di 21 mila metri cubi di gasolio nel fiume Daldykan, da cui è poi arrivato al fiume Ambarnaja e, infine, nel lago di Pjasino. Dal lago esce il fiume omonimo, il Pjasina, che sfocia nel mare di Kara. Il disastro fu reso noto a Mosca, agli organi centrali, due giorni dopo, innestando uno tsunami politico-amministrativo che si sommò a quello naturale. Vennero alla luce antiche inadempienze, dai sistemi di sicurezza al rinnovo degli impianti obsoleti, agli errori di valutazione. L’arrivo in loco di Vladimir Potanin, azionista di maggioranza della Nornickel e uno degli uomini più ricchi del pianeta, fu solo un annuncio prima dell’effettivo avvio di un’inchiesta sull’incidente, costituita dal ministro delle Risorse naturali e dell’Ecologia e dal governatore del territorio, che elaborarono un elementare sistema di monitoraggio della qualità dell’aria e delle emissioni di zolfo: «Verde, respiriamo tranquilli. Arancione: un respiro sì e uno no. Rosso: tornatevene subito a casa». In sintesi, la conclusione del rapporto sull’incidente di Noril’sk rimandò alla sostanza del problema: «A Noril’sk dove capiti capiti, è comunque un incubo dappertutto. È davvero un’enclave a parte, conclude sconsolato un lavoratore. (…). Gli ispettori — continua Kostjucenko — hanno tutti qualche legame con l’impianto… possono aver insegnato alla Scuola di formazione aziendale, la struttura interna che forma tutti i dipendenti… quando vanno in pensione vanno a lavorare al Servizio federale per la supervisione ambientale… Con queste premesse si può cambiare ben poco». Col metodo risorsa-risorsa è impossibile ripristinare l’ecosistema: «lo hai riempito di schifezze e allora devi ripulirle o aspettare che vadano via. Solo dopo potrai portare i pesci. E siccome la responsabilità è tua, i costi di tutti questi lavori ricadranno su di te… seguendo invece il metodo Potanin, egli vi verserà miliardi di rubli continuando però a scaricare schifezze… La legislazione ambientale andrebbe proprio riformata. Il concetto di responsabilità va completamente ripensato» (corsivo mio). «Nell’ultimo anno, il 2019, hanno spremuto all’Impianto profitti inverosimili». La conclusione dell’ispezione a Noril’sk di Elena Kostjucenko si svolge al lago di Pjasino, dove un gruppo di esperti effettua prelievi dall’acqua del fiume Pjasina e da vari punti del lago… la scoperta è inequivocabile: «Niente pesci, no. Niente di niente. Dal giorno dello sversamento sono proprio scomparsi» (corsivo mio). L’ente per la tutela ambientale ha stimato che «il danno ambientale causato dalla fuoriuscita di gasolio dalla centrale termoelettrica n. 3 dell’Impianto di Noril’sk ammonta a 148 miliardi di rubli (1 miliardo 476 milioni di euro circa). È una somma senza precedenti in Russia».
La serie di articoli che costituiscono «La mia Russia», oltre le reazioni umane di stupore e di dolore che suscitano immediatamente, rimandano a una riflessione ulteriore, più lucida ma non meno inquietante: se è vero che i cenni riassuntivi da me sin qui svolti possono riferirsi a molteplici realtà statuali esistenti nel mondo, ora come nel passato, riassunte nella parola corruzione, che porta al degrado della vita politica e della società civile nel suo complesso, è altresì vero che ciò che distingue il caso Russia è la persistente mancanza di una dinamica politica interna che indichi una prospettiva alternativa, un gioco delle parti, che valga il superamento di quel drastico giudizio pronunciato secoli fa dal principe Petr Vjazemskij (1792-1878): Da noi 5.000 versty separano un’idea dall’altra (la verstà è un’antica unità di misura, pari a 1.066,52 metri).
Mikhail Shishkin: il dramma storico e politico russo
Mikhail Shishkin (Mosca, 1961), noto scrittore russo («Punto di fuga», 2022) naturalizzato svizzero, ha scritto in tedesco nel 2022 «Russkij Mir: Guerra o Pace», ora tradotto in italiano, che — a differenza dell’inchiesta di Kostjucenko — vuole essere un vero e proprio atto d’accusa nei confronti del regime politico realizzato in Russia dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Šiškin (uso la traslitterazione corretta non quella fonica della edizione italiana) apre il suo saggio con una panoramica generale della storia nazionale: «In Russia è stato portato in scena un dramma per tre attori: il popolo taceva (secondo la geniale formulazione del finale della tragedia “Boris Godunov” di Aleksandr Puškin), la società colta chiedeva un governo popolare “svizzero” e dichiarava guerra al governo in carica. Il terzo attore, il potere statale non aveva altra scelta che ritirarsi sempre di più fino all’amara sconfitta o ancora stringere le viti più saldamente. Lo zar successivo, Alessandro III, fece cadere la Russia in una breve era glaciale. Suo figlio Nicola II decise di ritirarsi. Il destino non è stato clemente con l’ultimo zar presovietico. Perse la guerra contro il Giappone e subito si scatenò la rivolta nel suo Paese. Le vittorie in Russia hanno sempre prolungato l’aspettativa di vita del regime, ma le sconfitte l’hanno accorciata».
Gli avvenimenti successivi, inediti nello scenario internazionale, ma non imprevedibili in quello russo, si saldarono nell’orizzonte della 1a Guerra mondiale, e questa «spezzò la schiena alla neonata democrazia russa (…) e il Paese sprofondò in un’anarchia così sanguinosa che ci volle una dittatura ancora più sanguinaria per ristabilire l’ordine». I nuovi dirigenti del Paese «si sentivano scelti per cambiare il corso della storia del mondo, (…) i bolscevichi credevano di salvare il mondo dal capitalismo, ma sono stati usati male per salvare l’impero russo». Quando l’ordine fu ristabilito nel Paese, l’approccio ricordò fortemente la brutalità dei mongoli sotto il comando di Aleksandr Nevskij… il rapporto tra il potere e la popolazione fu ancora una volta posto sulla solida base del puro terrore. Šiškin procede in modo serrato, meccanico quasi, nello svolgimento del suo argomentare, adottando il termine mongolo ulus, che si applicava alla nazione nella sua interezza, per definire il nuovo modello di potere che si instaurò a Mosca. Dopo che Pietro il Grande aveva aperto la «finestra sull’Europa», Stalin la chiuse ermeticamente e isolò nuovamente il Paese dal mondo esterno. «L’ulus di Mosca risorse in pieno splendore. L’unica vera fede fu ricodificata dall’ortodossia al comunismo, ma la coscienza mitologica di milioni di persone rimase intatta. Un impero in lotta abusava della sua nazione come di un esercito. L’autocrate fu divinizzato dai suoi sudditi. Le esecuzioni dei traditori furono acclamate all’unanimità da tutta la nazione. L’unico obiettivo era la vittoria sui nemici.. La guerra dimostrò la resistenza dell’ulus modernizzato». Scriveva Dostojevskij: «Un popolo veramente grande non si rassegnerà mai a un ruolo secondario nell’umanità (…). Solo un popolo può avere il vero Dio. L’unico e solo popolo dei portatori di Dio è il popolo russo». E in una polemica con Nikolaj Danilevskij sul ruolo dei russi all’interno degli slavi, Dostoevskij ribadì: «come si possono paragonare i russi e gli slavi? (…) Costantinopoli dovrebbe appartenere a NOI, sarà conquistata da NOI, dai russi e rimarrà nostra per sempre». Sotto ai nostri occhi — sottolinea Šiškin — «La Russia emigrò dal XXI secolo al Medioevo».
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, circa 25 milioni di russi si ritrovarono all’estero.. I cittadini della «nazione occupante» divennero minoranze negli Stati delle ex repubbliche sovietiche. Ora dovevano imparare le lingue delle nazioni titolari. «Quando la bandiera rossa fu ammainata sul Cremlino e il tricolore russo issato, la gente in Occidente credeva che la democrazia e l’economia di libero mercato avrebbero preso piede nel Paese (…). Questa illusione fu alimentata da giovani riformatori come Egor Gajdar e Anatoly Chubais. Le loro riforme “neoliberali” suonavano bene, ma ciò che accadeva nella realtà non aveva nulla a che fare con le parole. Ecco perché queste “riforme” sono state molto apprezzate in Occidente e profondamente odiate in Russia. Le riforme trasformarono la precedente nomenklatura di partito in una nuova nomenklatura capitalista. L’élite della società comunista rimase al vertice anche nel nuovo ordine “capitalista”».
Un passato di schiavitù e un futuro incerto
L’inesorabile atto d’accusa di Šiškin non sembra concedere spazio a una qualsiasi prospettiva futura e in ciò stesso mancando al dovere del resoconto, che si ferma prima di qualsiasi giudizio e tanto più della condanna. Tralasciando l’ormai celebre e usurata frase di Churchill sulla Russia, e accogliendo con attenzione la più lucida e pregnante analisi di Vasilij Grossman (1905-1964): «L’anima russa è ancora misteriosa? No, non c’è nessun enigma. C’era? Cosa c’è di misterioso nella schiavitù? La legge russa dello sviluppo è davvero solo russa? L’anima russa, e in realtà solo l’anima russa, è destinata a svilupparsi non con una crescente libertà, ma con una crescente schiavitù? È davvero questo il destino dell’anima russa?… È tempo che gli interpreti della Russia capiscano che solo la schiavitù millenaria ha creato il misticismo dell’anima russa». Rimane in noi, partecipi appassionati di quel destino che intitola il capolavoro di Grossman «Vita e destino» (1960, pubblicato postumo nel 1980), l’impegno a conoscere e a sforzarci di capire.