Le caratteristiche culturali, sociali ed economiche di un’area impattano in maniera indiretta ma significativa sulle dinamiche di sviluppo, proprio come le esigenze espresse dal sistema produttivo.
di Antonello Calvaruso
L’identificazione del fabbisogno di competenze di un territorio riveste un ruolo fondamentale sia per la progettazione di una strategia di sviluppo e crescita e sia per la definizione di politiche formative idonee a supportare l’apprendimento delle persone che su di esso vivono e producono. Accanto all’analisi del fabbisogno contingente, ovvero quello espresso dal sistema produttivo, è importante, quindi, considerare anche le caratteristiche culturali, sociali ed economiche del territorio che impattano in maniera indiretta ma significativa sulle dinamiche di sviluppo. La rilevazione di questo macro-fabbisogno consente di prevenire, assecondare e orientare determinati processi evolutivi e può contribuire a generare processi attuativi delle politiche attive del lavoro in grado di massimizzare la generazione di benessere personale e diffuso.
Il declino produttivo e il pensiero di Graziani
Per illustrare lo schema concettuale alla base di questo ragionamento partiremo da alcune riflessioni di Augusto Graziani che, più di un quarto di secolo fa, evidenziava un progressivo declino della nostra struttura produttiva e una scarsa efficacia della spesa pubblica per investimenti dovuta sia alla mancanza di una visione sistemica sia all’inquinamento generato da un «groviglio di corruzione e cattiva amministrazione».
Nei suoi scritti Graziani spesso richiamava l’attenzione del lettore sulla miopia di una politica basata sulla riduzione del costo del lavoro e sulla precarizzazione dello stesso per competere sui mercati internazionali. Questa, oltre a rendere l’industria italiana poco attraente agli investitori internazionali, avrebbe impedito di stare al passo con l’innovazione sia di processo che di prodotto. Ancora oggi vaste aree del nostro Paese, soprattutto al Sud, sono state trasformate in un immenso laboratorio degradato che ospita solo in apparenza produzioni industriali ma si concentra su lavorazioni materiali facilmente sostituibili.
L’analisi che Graziani faceva negli anni ’90 del vecchio secolo risultava essere così tanto impietosa quanto profetica, soprattutto quando evidenziava l’inevitabile declino dei territori maggiormente sviluppati. Declino derivante dal fatto che anche queste imprese non governavano la catena del valore in quanto gran parte delle attività di progettazione, design, ricerca tecnologica, finanza e mercato non erano da loro gestite. Questo ha comportato che anche la crescita del benessere nelle aree più sviluppate sia stata assoggetta alla partecipazione a catene del valore governate da altri Paesi.
Il quadro tracciato da Graziani evidenzia il vicolo cieco imboccato dal Paese: si perpetua un’industria povera che comporta il dover competere con Paesi che possono offrire lavoro precario a costi ancora più bassi.
Una via di uscita è legata a una rettifica dell’intera politica industriale nazionale che sappia coniugare lo sviluppo delle imprese con la necessaria infrastrutturazione tale da valorizzare il vantaggio posizionale dell’Italia dato dalla centralità nel Mediterraneo che favorisce tanto i collegamenti Nord-Sud che quelli Ovest-Est. L’industria italiana, e ancor più quella del Mezzogiorno, in mancanza di una politica industriale sarà destinata ad assumere un ruolo subalterno sotto l’aspetto dell’innovazione. Bisogna quindi guardare ai potenziali mercati nei Paesi del Mediterraneo per esportare mezzi di produzione e tecnologia.
Questa strada non può essere percorsa da singoli imprenditori ma spetta al settore pubblico definirne i confini e le strategie di interventi.
I legami deboli e la forza delle relazioni
Di parere contrario era Giacomo Becattini, economista famoso per la teorizzazione dell’economia dei distretti industriali, che proponeva una soluzione debole: le imprese delle aree sottosviluppate potevano diventare subfornitrici di quelle operanti nei distretti industriale del Centro-Nord. Adriano Giannola definì all’epoca questa soluzione «leggera industrializzazione», che altro non era che la versione in positivo dell’immenso laboratorio degradato illustrato da Graziani.
Ci sono comunque, nella visione di Becattini, alcune argomentazioni interessanti su cui vale la pena focalizzare l’attenzione. Una di queste riguarda il ragionamento sulla forza dei legami, apparentemente deboli, quali quello della parentela, dell’amicizia, della simpatia e del timore. Spesso questi legami sono conseguenza della contiguità spaziale. Sono legami che, a differenza di quelli economici, si sfaldano lentamente, anzi si ricostruiscono continuamente in nuove, spesso imprevedibili, forme.
Secondo questa visione la competitività delle imprese è la risultante anche di questo continuo lavorio presente sul territorio e che si realizza attraverso lo scomporsi e il ricomporsi di forme di solidarietà, lealtà, appartenenza tra le persone.
Per questo Becattini sostiene che, oltre al contributo dell’intervento pubblico, una parte della crescita di un territorio sia determinata dalla costruzione consapevole di un tessuto di relazioni positive. Il combustibile di questo movimento non è dato dalle idee o dalle risorse finanziarie ma dalle aspettative e dalle speranze che le persone ripongono nel progetto.
Se questa progettualità si inserisce in un movimento che già esiste, secondandolo, correggendolo, orientandolo e aiutandolo, allora il successo è più probabile.Se invece si fonda su una idea astratta, sganciata dai sentimenti delle persone che la devono realizzare, sarà probabilmente un buco nell’acqua.
Il triangolo dello sviluppo: cultura, politica e istituzioni
Potremmo dire che lo sviluppo di un territorio si basa sulla qualità di alcuni elementi caratteristici posti ai vertici di un triangolo.
Al vertice superiore di questo triangolo, così come dimostrò Robert Putnam all’inizio degli anni Novanta con la ricerca confluita nella pubblicazione intitolata «La tradizione civica delle regioni italiane», c’è senz’altro la qualità delle istituzioni.
Questa, se non generata dalla qualità degli assetti culturali e politici, è senz’altro correlata ad essi. L’interazione tra questi tre elementi, cultura dei luoghi, politica e istituzioni senz’altro può determinare un circolo virtuoso laddove l’una pressi sull’innalzamento della qualità dell’altra, tanto un circolo vizioso laddove cada in quel «groviglio di corruzione e cattiva amministrazione» dal quale ci metteva in guardia Graziani.
Il ruolo della formazione nello sviluppo territoriale
Questi due approcci possono esserci utili per avviare un ragionamento sensato sul ruolo che la formazione può svolgere a supporto dello sviluppo della competitività delle imprese? In che modo l’intervento pubblico può supportare la crescita di un territorio? Quali sono le informazioni necessarie per far collimare pertinenza, efficienza ed efficacia di un intervento formativo a supporto del benessere personale e diffuso e della competitività delle imprese?
Senz’altro la conoscenza del territorio, soprattutto di quei «legami apparentemente deboli» richiamati da Becattini è fondamentale per progettare una formazione che sia coerente con gli assetti culturali, politici e istituzionali che lo caratterizzano. Per questo è fondamentale, soprattutto per la redazione di cataloghi formativi che si rivolgono in maniera generica ad imprese presenti su uno specifico territorio, ricorrere preventivamente a studi e analisi del sistema socioeconomico. Si tratta di comprendere le vocazioni produttive di un territorio, il suo genius loci fino a identificare piani di sviluppo, descrivere le caratteristiche fondamentali della struttura del sistema produttivo e del mercato del lavoro per poi planare sugli aspetti più effimeri quali il sistema dei valori, la cultura dei luoghi, la qualità della politica, le attese dei cittadini e così via. Si tratta di identificare le fonti in base alle quali individuare, rilevare e sistemare i dati occorrenti alla creazione dell’immagine di sfondo che caratterizzerà gli interventi formativi a supporto dello sviluppo di un territorio.
Gli attori che caratterizzano la filiera formativa, in particolar modo gli analisti e i progettisti di formazione, dovranno affinare competenze legate alla comprensione delle informazioni prodotte dalla letteratura specialistica ed alla elaborazione statistica dei dati grezzi. Dovranno individuare i testimoni privilegiati del territorio per comporre a mosaico il tessuto che può supportare lo sviluppo e la crescita dello stesso.
In particolare, si tratta di affinare tecniche di analisi desk e indagine qualitativa volte a identificare come la qualità delle istituzioni, della cultura dei luoghi e del partenariato, nonché le strategie politiche adottate a supporto dello sviluppo, facilitino la produzione e diffusione delle informazioni per lo sviluppo delle conoscenze necessarie a generare opportunità di crescita del territorio.
Sulla base di quanto appreso da questa analisi chi si occupa di progettazione formativa, soprattutto per la creazione cataloghi formativi generici, dovrà comprendere di quale tipo di formazione il territorio necessita per sviluppare una capacità competitiva basata sull’innovazione.
Si tratta quindi di affinare le competenze per svolgere una serie di attività preliminari, ma propedeutiche, alla specifica analisi del fabbisogno formativo che può essere di tipo istruttivo, laddove il territorio sia caratterizzato da una scarsa qualità degli assetti istituzionali, politici e culturali, di tipo adattativo legato alla manutenzione di competenze presenti o all’arricchimento delle stesse per la creazione di nuove figure professionali (occupazione aggiuntiva) o di nuovi compiti (per gli attuali occupati) nel territorio di riferimento relativamente a settori, aree e famiglie professionali mediante una formazione di tipo generativo. Un territorio altamente evoluto, che soffre però la dipendenza da catene del valore guidate da imprese di altri paesi, potrebbe richiedere di investire su strategie formative generative finalizzate ad affinare competenze legate alla progettualità, al design e all’innovazione di processo.
La rilevazione del fabbisogno di un territorio, quindi, generando una maggiore conoscenza delle caratteristiche produttive, del profilo sociale degli attori che lo abitano e degli asset che insistono su di esso, favorisce la stesura di una mappa che può orientare sia il decisore politico nel progettare una corretta strategia di intervento sia le persone che devono attivamente partecipare alla realizzazione del proprio benessere futuro.
Il decisore politico può definire una politica industriale coerente, così come indicava Graziani, progettando una strategia attuativa che, come detto da Becattini, possa assecondare le aspettative e i desideri dei cittadini valorizzando quanto già esiste in termini culturali, produttivi e paesaggistici.
Attraverso la fruizione della formazione a catalogo organizzazioni e persone possono acquisiremaggiore consapevolezza sul proprio ruolo a supporto della realizzazione del progetto di sviluppo e identificare le azioni necessarie per contribuire alla migliore riuscita dei processi attuativi connessi alla strategia politica definita.
Un terzo contributo offerto dalla formazione può essere quello della costruzione o del rafforzamento delle competenze necessarie a rendere sostenibile il processo di sviluppo.
Per comprendere meglio le caratteristiche di un territorio si può ricorrere ad una schematizzazione che faciliti l’identificazione di alcuni elementi topici su cui focalizzare l’attenzione.
Potremmo a tal fine identificare quattro livelli fondamentali da tenere sotto controllo per aumentare pertinenza, efficienza ed efficacia degli interventi formativi a supporto dello sviluppo.
Un primo livello riguarda le istituzioni comunitarie e nazionali che sono deputate alla attivazione delle risorse necessarie per finanziare progetti di sviluppo. Sono istituzioni che a maglie larghe allocano risorse per la realizzazione di uno scenario definito dai decisori politici.
Esse hanno bisogno di enti e istituzioni, poste al secondo livello, che svolgano il delicato compito di integratori di risorse, ruolo che in qualche modo serve per declinare, in relazione alle specificità dei territori, le strategie di sviluppo in processi attuativi. È un classico nodo organizzativo che svolte il compito di trasmissione verso le strutture organizzative che, in prossimità dei fruitori finali, possano progettare specifici interventi a supporto dello sviluppo.
Il terzo livello, ponendo la massima attenzione alle caratteristiche di ciascuno specifico territorio, svolge il delicato ruolo di connettere le risorse alla soddisfazione dei bisogni. Si interfaccia quindi con il livello che potremmo definire dei punti che altro non è che quello composto dai beneficiari degli interventi.
Come ogni schema che si rispetti questo non rappresenta la realtà ma un utile strumento di semplificazione della complessità, tale da orientare i professionisti della formazione a sviluppare meglio le proprie competenze per intervenire, con sempre maggiore consapevolezza e professionalità, nell’incerto mondo dell’apprendimento.
Gianbattista Vico ci ha insegnato che nella storia pur essendoci delle invarianti non bisogna perdere di vista le particolarità specifiche di ogni civiltà, ovvero il modo in cui ciascuna civiltà traccia il sentiero del proprio divenire. Tutte le dinamiche connesse allo sviluppo e al sottosviluppo possono essere ricondotte a questa logica: è l’uomo il principale artefice dell’avvio di circoli virtuosi o viziosi così come è l’uomo il principale succube della complicazione degli scenari nei quali «vagabonda».
I modelli indotti dai ragionamenti della nuova geografia economica aiutano a capire perché alcuni territori hanno maggiori potenzialità rispetto ad altri, ma non riescono a spiegare tutto. Ciò forse a conferma del fatto che non esiste un «percorso di sviluppo». Non è possibile importare modelli stranieri, senza tener conto non solo delle condizioni ambientali ma anche di quelle variabili socio-politico-istituzionali che facilitano o inibiscono i processi di sviluppo.
Non esistono quindi ricette per lo sviluppo di distretti industriali, tuttavia è possibile supportare i processi educativi e formativi necessari a incidere sulle dinamiche profonde dei cambiamenti culturali che sottendono lo sviluppo di una economia locale.
Non è possibile costruire a tavolino la nascita di un distretto industriale; tuttavia, è possibile formulare piani strategici volti a far focalizzare gli sforzi di differenti attori operanti sul territorio verso il raggiungimento di obiettivi comuni.
Le politiche di sviluppo non sono quindi irrilevanti, esse sono deputate a fornire alle persone e alle organizzazioni il senso del dove andare, del dove dirigere i propri sforzi. Questo tipo di indirizzo facilita la creazione di sistemi di priorità, pressando sui prerequisiti indispensabili per lo sviluppo locale: legalità, istruzione, infrastrutture, beni pubblici, formazione, mobilità.
L’intervento pubblico può così differenziare la gamma di servizi offerti alla comunità focalizzandosi sulla riuscita di interventi puntuali, quali il finanziamento a supporto di attività produttive, piuttosto che a largo raggio, quali possono essere interventi che favoriscono il mantenimento, il rafforzamento e l’aggiornamento delle culture locali, cruciali per l’attrazione di capitali, di investimenti e di miglioramento del capitale sociale.
Implicazione fondamentale di ogni dinamica di sviluppo è l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro sui mercati locali, determinando così sia un giusto incontro tra produttività e ricompensa che tra competenze necessarie e gap formativi da colmare.
Da più parti si sostiene che gli interventi pubblici favoriscono più i consumi che gli investimenti, disincentivandola maturazione di una classe dirigente. Abbiamo visto che questo dipende spesso dalla mancanza di una visione sistemicache favorisca l’interconnessione tra i bisogni del territorio e l’azione imprenditoriale, istituzionale e politica.
Verso una strategia condivisa: identità e futuro del territorio
Molto spesso i territori sottosviluppati sono pieni di risorse «dormienti», legate alla natura, alla storia, alla cultura, alla ricerca scientifica, e via discorrendo. Tutte queste risorse molto spesso vengono trascurate, diventando così sempre più passive e declinanti. Questo perché intorno ad esse non vengono avviati dei processi sociali e imprenditoriali, né viene incentivata la creazione di reti trasversali capaci di integrare competenze differenti, utili a generare nuove idee e nuove opportunità di sviluppo.
Porter sostiene che «la produttività e la prosperità di un’area non dipende dal settore in cui compete ma dal come compete», occorre, quindi, esercitarsi nella pianificazione di scenari in cui coinvolgere i differenti attori sociali nell’elaborazione di una visione comune e condivisa. Questa «identità strategica» di un territorio può rappresentare il futuro desiderato, per la realizzazione del quale devono essere focalizzati tutti gli sforzi necessari ad avviare circoli virtuosi di sviluppo.