Recovery, parola d’ordine: spendere presto e spendere bene I fondi. Ma quanto e come la macchina organizzativa riuscirà a mettersi in moto? Il rischio è sempre concentrato nei soliti punti: nella grande lentezza delle procedure, derivanti da una legislazione ipertrofica e instabile con i problemi di un apparato burocratico invecchiato per via del mancato reclutamento negli anni di nuove forze ed energie e nella centralizzazione di tutti i livelli strategici, compreso la formazione e l’assistenza tecnica. Sono questi i grandi nodi venutisi a creare negli anni, oggi talmente accresciuti da essere davvero molto difficile da sciogliere.
«Il livello massimo di crisi di un’organizzazione si ha quando questa si dimostra incapace, pur avendo le risorse, di reclutare le professionalità di cui ha bisogno». Esordisce così Francesco Verbaro, Senior advisor Adepp, presidente Formatemp e presidente Organismo indipendente di valutazione della performance del Mef, nel suo commento sul Il Sole 24 Ore.
Valutazione che trae forza dall’esperienza delle ultime settimane sul concorso per il Sud e per il Comune di Roma, dai cui scarsi risultati in termini di partecipazione Verbaro trae due dati importanti: il primo, sintomatico, è la mancanza di fiducia ed entusiasmo da parte dei partecipanti, il secondo, forse anche più indicativo è che la Pa, nonostante i buoni propositi, “non attrae il capitale umano migliore”.
«Purtroppo», continua Verbero, «le disposizioni “emergenziali” nate per aiutare le amministrazioni ad attrezzarsi per gestire le ingenti risorse del Recovery Fund e per attuare i programmi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) hanno messo in crisi le amministrazioni, evidenziando le difficoltà nel conoscere il mercato del lavoro e nell’individuare lo strumento migliore per reclutare le professionalità specialistiche di cui hanno bisogno». Questo, in sostanza, implica non solo che si è ancora lontani dall’avere padronanza, in termini di organizzazione e pianificazione, delle risorse che stanno per essere incanalate nelle reti pubbliche, ma che non si ha assolutamente conoscenza del mercato del lavoro né di quello che si cerca in esso. Inoltre, secondo il presidente Formatemp, in un contesto nazionale già sofferente per la mancanza di professionalità Stem, ossia di scienze, tecnologia, ingegneria e matematica, reclutare certe “elevate professionalità” pone il pubblico in diretta competizione con il settore privato.
In generale, dunque, la ripresa post-Covid e l’annessa esigenza di digitalizzazione hanno messo ancor più in evidenza il problema del reperire sul mercato le professionalità necessarie alle imprese. Le imprese, infatti, devono fare ricorso obbligato alle agenzie per il lavoro e alle società specializzate le quali, a loro volta, trovano anch’esse difficoltà nel rintracciare quelle competenze tecniche oggi così tanto richieste e ricercate da tutti.
«Un analista del mercato del lavoro», commenta tranciante Verbero a proposito delle professionalità tecniche, «avrebbe aiutato certamente a capire come predisporre i bandi».
Il processo di digitalizzazione, dunque, come conseguenza diretta del distanziamento sociale dovuto alla pandemia, esige in Italia, oggi più che mai, un numero elevato di competenze tecniche che il nostro sistema formativo non è in grado di fornire.
Insomma, meno giuristi, amministrativi o figure classiche, ma servono con urgenza nuove figure per mansioni nuove: informatici, statistici, ingegneri, economisti, data analyst. Tutte figure professionali, queste, senza le quali è impossibile iniziare a ripensare una Pubblica amministrazione che funzioni, ma che purtroppo, siamo ancora molto lontani dal concepire e dell’attrarre professionalmente negli attuali inquadramenti.
Verbero pone una domanda interessante, che forse dovrebbe essere posta come domanda guida di qualsiasi organizzazione che voglia iniziare un cambiamento, o per lo meno per comprendere i propri punti di debolezza, e cioè: «Ma perché la Pa non è attraente?».
Ma è una domanda retorica, perché poi lascia emergere molte risposte e molti perché, ed ogni perché potrebbe essere stato scritto da ognun o di noi:
– perché conosciamo solo le sue malefatte e le sue inefficienze;
– perché non sa remunerare le competenze, le esperienze, i rischi e le responsabilità;
– perché ha retribuzioni di ingresso non competitive per i profili specialistici e percorsi di carriera condizionati dall’anzianità;
– Perché non prevede percorsi di aggiornamento e specializzazione;
– Perché non premia il merito;
– Perché non ha un welfare aziendale.
– perché tranne in alcuni settori, come sanità e difesa, non vi è più nel pubblico un patrimonio valoriale e culturale identitario, e i ritardi e le inefficienze del sistema Italia vengono da tutti ormai attribuiti all’apparato “burocratico”, che con gli aggettivi che lo circondano ha ben poco di attrattivo.
Ben poco di attrattivo, a quanto pare, soprattutto per le giovani generazioni, le quali decidono, o meglio “accettano” di partecipare ad un concorso del genere solo dopo aver rinunciato ad altri percorsi. Un luogo di lavoro non ambito, non desiderato, spesso ricoperto senza soddisfazione e senza alcun tipo di gratificazione. La strada del concorso pubblico sembra identificarsi dunque con quella dell’insoddisfazione, dell’inappagamento e della frustrazione. Sarebbero infatti soprattutto la crisi di questi anni e l’incertezza per il futuro a spingere i professionisti, soprattutto nel Mezzogiorno, verso i concorsi pubblici. Questo fattore è incrementato dalla distrazione con cui la pubblica amministrazione si occupa delle proprie risorse umane.
Senza un’inversione di tendenza il rischio è quello di svalutare ulteriormente quello che dovrebbe invece essere il fulcro del sistema linfatico dell‘Italia, per cui lavorar dovrebbe essere pregevole ed esemplare.